Genova, 21 luglio 2001


2001, Genova, Italia

Lettera aperta agli amici e ai compagni di strada

Alcuni amici mi hanno chiesto di raccontare. E' colpa loro se tutti voialtri ora avete la sfiga di beccarvi questa lettera aperta. Non fa niente se non avrete voglia o tempo di leggerla fino in fondo, ci sono casi in cui scrivere serve anche come valvola di sfogo e come modo per riordinare le idee: sono due esigenze che in questi giorni mi pulsano dentro all'impazzata, e che stiate leggendo o meno mi siete comunque preziosi come immaginari interlocutori.

Impossibile in realtà dar forma scritta alla rabbia, al dolore e all'incredulità per quanto vissuto a Genova. E quando devo esprimere qualcosa per cui mancano le parole, da prolisso divento interminabile. Ve lo dico alla quinta riga così ho la scusa per andare avanti per altre due o tremila.

Siamo andati, e abbiamo visto. 

Abbiamo visto e ora dovremo esserne testimoni, mettere insieme tutto ciò che abbiamo vissuto, raccontarlo agli altri, farlo diventare un mezzo di pressione politica e di ricerca della verità. Abbiamo questo dovere.

Ma dobbiamo essere lucidi. Cerco allora un distacco dallo stato emotivo che mi porto dietro da Genova, e lo cerco nella storia.

Conoscete il nome di Giorgiana Masi, una ragazza di 22 anni che il 12 maggio del 1977, durante una manifestazione pacifica, venne uccisa da un colpo di pistola sparato da poliziotti travestiti da autonomi, uomini dei reparti speciali sguinzagliati dal ministro Cossiga per le strade di Roma. L'intento era quello di sempre: seminare panico e violenza facendone ricadere la responsabilità su presunte frange estreme di manifestanti e creando il clima giusto per una repressione generalizzata del corteo da parte delle forze dell'ordine, per annegare nel sangue e nello scontro di piazza un grande movimento nonviolento che aveva delle cose da dire ai potenti e ci stava riuscendo. E allora via con i finti autonomi a far casino da una parte, e con la polizia a caricare dall'altra. E i manifestanti nel mezzo a rimetterci le penne.

E' esattamente quello che abbiamo visto accadere a Genova.

Tanti hanno visto le bande dei black bloc far scoppiare gli scontri e poi riparare dietro le linee di polizia a riprendere fiato, protette dai blindati delle forze dell'ordine, ricevere armi e bastoni da misteriosi camion che solo con la complicità delle forze di polizia potevano entrare e circolare in una città blindata, li abbiamo visti spaccare vetrine e subito dopo parlare con funzionari delle forze dell'ordine per ricevere nuove direttive. Ci sono testimonianze di chi li ha visti nei giorni precedenti dentro le questure, confabulare con gli agenti parlando in tedesco e in inglese. Sono ormai di dominio pubblico le foto di un gruppo di carabinieri che si travestono da black bloc fuori da una caserma. Erano loro, erano i loro uomini. Viene da urlare.

La polizia ignorava loro e caricava e massacrava noi manifestanti che marciavamo a decine di migliaia con le braccia in alto, come a dire "non abbiamo neanche un sasso in mano" e scandivamo senza sosta "nonviolenza-nonviolenza". Abbiamo vissuto ore in cui vedevamo i black bloc spuntare come funghi, distruggere tutto davanti e dietro di noi, i poliziotti ignorarli o proteggerli e caricare noi, sparando lacrimogeni ad altezza d'uomo.

Se i momenti di panico, durante le cariche e i lanci di lacrimogeni, non sono sfociati in fughe generali ed incontrollate dei manifestanti, che calpestandosi gli uni con gli altri avrebbero portato a contare alla fine decine di morti, è stato solo grazie alla maturità e alla preparazione di un movimento che per mesi e mesi si è autoimposto un percorso di formazione a questo appuntamento, imparando le tecniche di reazione nonviolenta che sono state decisive per mantenere quanto più possibile calmo e serrato il corteo nei momenti peggiori. Era impressionante vedere migliaia di persone reagire alle cariche non voltandosi e fuggendo come sarebbe istintivo ma alzando le braccia e rimanendo fermi, faccia a faccia con il fumo dei lacrimogeni e con i manganelli della polizia. Avete presente la celebre foto dello studente di Piazza Tienanmenn immobile davanti a una fila di carroarmati? Quella. Immaginatela e trasportatela a Genova, applicata a trecentomila persone. 

C'è gente che si è beccata ore di lacrimogeni, pur di non spostare di un metro la propria postazione di puntello come servizio d'ordine, dando così tranquillità e punti di riferimento a chi sfilando doveva passare dove era automatico aver paura, ci sono compagni che hanno rischiato di trovarsi in prima linea sotto la carica pur di non mollare la presa del braccio del vicino a costituire il cordone di sicurezza, indispensabile per tenere insieme il corteo e salvaguardare la sicurezza dei partecipanti, evitandone una dispersione che sarebbe stata pericolosissima se non mortale. In una manifestazione che fosse stata priva di una preparazione così accurata ad affrontare certi momenti, il comportamento delle forze dell'ordine avrebbe causato scene di fuga e panico tali da portare alla morte per calpestio e schiacciamento di non so quanta gente. Chi ha diretto polizia e carabinieri cercava la strage. Per questo è giusto parlare di trecentomila superstiti.

Infine, lo avrete letto: i compagni che sono rimasti in città anche sabato notte sono stati assaliti da centinaia di poliziotti che hanno fatto irruzione nella scuola dove dormivano, li hanno massacrati a colpi di manganello e calci in faccia mentre erano nei loro sacchi a pelo, hanno distrutto tutto, avevano l'intento di far sparire tutte i filmati e le fotografie che i manifestanti avevano realizzato durante la giornata per testimoniare la collusione tra le bande nere e le forze dell'ordine. Dopo aver spaccato nasi ed ossa si sono accaniti contro i computer, spaccando tutto e asportando i dischi fissi con le informazioni riguardanti denunce, elenchi di persone ferite o di cui non si hanno più notizie, arresti ritenuti illegittimi. Prove scomode. Una retata in puro stile-Pinochet, selvaggiamente compiuta nel 2001 a Genova, Italia.

Un massacro contro gente disarmata che crede nella pace e non sa tirare neanche un sasso. I più fortunati, i pochi che non sono usciti da quella scuola in barella, sono stati ammanettati e arrestati. Dalle questure e dai commissariati ci arrivano agghiaccianti racconti di torture e violenze, oltre che di violazione dei pił elementari diritti legali che spettano a qualunque cittadino soggetto a fermo od arresto.

Io non so bene cosa possiamo fare di fronte a tutto ciò, ma ci dobbiamo provare. Dobbiamo contrastare le menzogne di chi ha voluto tutto questo e ora tenta di ritorcerlo contro un movimento fatto di donne e di uomini che hanno marciato a braccia alzate. Tutti voi avete letto quello che ha detto il ministro dell'Interno, non ve lo sto a ripetere. Riprendendo un articolo del manifesto, vi ricordo invece un analogo discorso fatto da un altro personaggio, oltre trent'anni fa. Sì, cerco ancora lucidità nella storia. Era il pomeriggio del 7 luglio 1960, quando 350 uomini della Celere armati di pistola e mitra caricarono 300 operai delle officine di Reggio Emilia in sciopero, armati di maniche di camicia e nient'altro. E' un massacro, Afro Tondelli muore schiacciato da una jeep, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Lauro Ferioli e Marino Serri cadono a terra sotto colpi d'arma da fuoco. E' di loro che parla la più struggente canzone del repertorio operaio italiano, "Morti di Reggio Emilia", che tanti compagni ancora oggi si emozionano a cantare e a tramandare di generazione in generazione. Il presidente del consiglio era Ferdinando Tambroni, al governo grazie all'appoggio del Movimento Sociale Italiano e dichiarato oppositore della Costituzione fondata sulla Resistenza dell'Italia antifascista. Così riferì al Parlamento dopo i fatti di Reggio: "circondati dai dimostranti che tiravano sassi, gli agenti furono costretti a sparare per legittima difesa".

Carlo Giuliani aveva la stessa età dei ragazzi di Reggio Emilia e di Giorgiana Masi. La sua imprudenza di ventenne lo ha consegnato a un elenco di vittime che affonda le sue radici in un passato maledetto. L'uomo che lo ha ucciso era appena maggiorenne. Entrambi tragiche comparse di un gioco al massacro tra poveri, in cui il potere trae buon gioco dal creare scontri e disordini per serrare le fila e reprimere nel sangue qualunque energia alternativa e antagonista, soprattutto quando queste energie iniziano a conquistare una posizione culturale e politica tale da renderle agli occhi dell'opinione pubblica un interlocutore importante, maturo e degno di essere ascoltato: una voce troppo pericolosa per otto mercanti di armi e di droga barricati in una nave blindata a spartirsi il pianeta. E allora contro ai manifestanti si mandano le forze dell'ordine, uomini in divisa che in buona parte altro non sono che ragazzi assoldati negli strati sociali più disagiati pescando nella disperazione della disoccupazione, addestrati alla guerra selvaggia con uno scientifico lavaggio del cervello, armati senza magari aver mai visto una pistola fino a una settimana prima, drogati chissà con che cazzo di sostanze e mandati allo sbaraglio contro l'inferno scatenato ad hoc da uomini misteriosi vestiti di nero, quei black bloc assoldati, armati, organizzati e diretti come un corpo speciale, come le teste di cuoio. Non sono fantasie, li abbiamo visti. Loro a spaccare tutto da una parte, la polizia dall'altra, i manifestanti in mezzo. C'è un pezzo di Stato che ha voluto ed organizzato tutto questo.

E' tutto troppo evidente e pazzesco. Ne siamo stati testimoni, dicevo all'inizio. E allora testimoniamo. Noi che eravamo a Genova non ci stanchiamo di incontrarci, di raccontarci a vicenda quello che abbiamo visto, di mettere insieme i pezzi, di ricostruire i fatti e di parlare. Raccogliamo la documentazione che la polizia non ha distrutto, rendiamola visibile a tutti, affinché tutti abbiano gli elementi per capire la gravità e le proporzioni di quello che è accaduto in questi giorni.  

Chi invece a Genova non c'era ci stia vicino, vi prego, ve lo chiedo con voce straziata, abbiamo tremendamente bisogno di voi. Aiutateci a raccogliere le idee e a tentare di trovare calma e lucidità in una situazione che ci ha sconvolto e che rischia di farci impazzire dalla rabbia. E insieme a noi leggete, informatevi, documentatevi, state a sentire le voci e fatele rimbalzare ovunque. Collegatevi ai siti in cui si stanno raccogliendo e si continueranno a raccogliere tutte le testimonianze. Rispetto ad altri movimenti del passato abbiamo in più questo mezzo straordinario di comunicazione e di divulgazione del materiale, e allora non vi stancate di girare per la rete, di seguire i racconti andando avanti di link in link, di conoscere e di capire quello che è accaduto. Se non avete tempo di leggere a video, stampate tutto, e utilizzate i momenti morti della settimana - le attese nel traffico dei giorni feriali o le ore in spiaggia del sabato e della domenica - per riprendere in mano quei fogli. Per favore fatelo. E' un dovere civile e morale prima ancora che politico.

Il Genoa Social Forum continuerà il suo lavoro, verranno indetti nuovi appuntamenti, preparandosi ad una grande manifestazione nazionale a Roma il 10 novembre, in concomitanza della riunione del WTO che si svolgerà in Qatar. Le iniziative, sia di formazione e di studio su queste tematiche che di presenza in piazza, si moltiplicheranno. Di fronte a tutto questo, e soprattutto di fronte a quanto avvenuto a Genova, è il momento di prendere posizione. Per questo è importante leggere e conoscere: per poter scegliere da che parte stare. Chi sta dalla parte di questo movimento, se ancora non l'ha fatto lo dica. Oppure dica che non ci sta. Ma decida. Decida! Perché è il momento di schierarsi. O da una parte o dall'altra. La strategia della sinistra di governo o aspirante tale (chiamatela strategia dalemiana o veltroniana o rutelliana, alla resa dei conti per me pari son...) di "un colpo al cerchio e uno alla botte" pur di aspirare a prendere i voti di tutti è una strategia indegna, fa vomitare, e se qualcuno non se ne fosse accorto è pure perdente. La preparazione di una manifestazione di rilievo mondiale su tematiche di scala planetaria per mesi viene ignorata, non ci si schiera in nessun modo, quando si tratta di prendere uno straccio di posizione non si sa bene che rispondere, per un po' l'adesione viene esclusa, poi viene data in extremis ma con mille distinguo e polemiche interne, poi viene revocata quando muore un ragazzo (cioè proprio nel momento in cui era ancora più opportuno esserci e schierarsi!) Questo è quello che hanno fatto gli immondi vertici dei diesse. Se la base di questo partito, o una parte della base, non si riconosce in questo comportamento è ora che lo urli forte. Alcuni lo hanno fatto: alla festa dell'Unità di Firenze il segretario regionale toscano è stato contestato mentre tentava di difendere la vergognosa posizione assunta dal partito sulla questione G8, ed è stato costretto ad interrompere il suo immondo intervento dalla reazione di una platea composta da oltre mille persone tra militanti ed iscritti diessini, esponenti di associazioni, giovani, anziani. Tra le persone che sono intervenute al dibattito anche un anziano iscritto che si è detto "vergognato dalla posizione di questo nostro partito".

Bene compagni, cosa si aspetta a far avvenire ciò in tutte le feste dell'unità, in tutte le sezioni, in tutte le federazioni? Le dichiarazioni di D'Alema e Fassino non sono migliori di quelle del segretario toscano. Sono rivoltanti. La base del partito ha l'ultima occasione, ma davvero l'ultima, di riprendersi la propria storia (quella per cui ancora si cantano i "morti di Reggio Emilia"), la propria dignità, la propria identità di sinistra, mettendo quest'ultima davanti alla propria fedeltà ai vertici e facendo scomparire dalla scena politica chi ha guidato il partito negli ultimi anni, dai dirigenti nazionali a quelli di federazione cittadina e di unità circoscrizionali. Fuori tutti coloro che sono stati responsabili o conniventi rispetto a certe scelte sciagurate oltreché suicide (numeri elettorali alla mano). E' ora di ricominciare. Ma in fretta, che non c'è tempo. Perché è ora di fare l'appello, chi ci sta bene, e chi non ci sta è dall'altra parte. Dall'altra parte! Questo deve essere chiaro. Non è più tempo di mezze scelte, di compromessi, di sfumature che vogliono salvare capra e cavoli. C'è da scegliere. Bianco o nero? Testa o croce? Destra o sinistra? Ripeto e sottolineo: destra o sinistra?

I cittadini di Genova questa scelta l'hanno fatta. Per dieci chilometri di percorso abbiamo visto cestini calar giù dalle finestre, raccogliere bottiglie di plastica ormai vuote e ricalarle giù dopo un minuto, riempite d'acqua. Neanche ai box della Ferrari sono così efficienti. Chi ha vissuto momenti di panico particolarmente brutti e si è ritrovato nei vicoli senza via d'uscita, accerchiato da bande nere e forze di polizia, si è visto aprire le porte di casa da gente che li ha così tratti in salvo. Sul viale che finalmente conduceva all'arrivo, un signore dal primo piano ha offerto una quanto mai desiderata doccia ai manifestanti accaldati da tante ore sotto il sole e stremati da tanta tensione e paura, spruzzando acqua con la pompa del balcone. Subito dopo si è aperta un'altra finestra al piano di sopra, poi un'altra, poi un'altra ancora, e nel giro di pochi istanti l'intera facciata del palazzo si è animata di persone che spuntavano d'incanto chi con una tinozza, chi con un secchio o una bottiglia, tutti a buttar giù acqua, e non era solo un modo per dare refrigerio a chi lì sotto si inzuppava contento, no, era un atto politico, un simbolo, era come sventolare una bandiera o soffiare in tanti fischietti, era come dire "ci vedete? ci siamo anche noi". Il popolo dei rubinetti, o se preferite il popolo delle mutande, quelle sventolate da arzille nonne ottantenni che si affacciavano a salutare chi sfilava, in risposta all'ordinanza che ha vietato l'esposizione del bucato alle finestre per non disturbare la vista degli otto grandi.

Ecco, il popolo della sinistra è chiamato - ultima chiamata - a fare qualcosa di altrettanto facile ed insieme dirompente. Ad uscire una buona volta dai congressi di sezione, dalle riunioni di direttivo, dagli attivi di federazione, dalle assemblee con se stessi e con i propri modestissimi dirigenti. A lasciare quelle benedette sedie per aprire le finestre e tornare a guardare la gente, le masse, i compagni, le realtà territoriali, i movimenti, le persone, e ad aprire quei rubinetti diventati un simbolo nelle case di Genova. Di fronte alla gravità di quanto accaduto nei giorni scorsi, io credo che si abbia il diritto di sapere chi sta da una parte e chi dall'altra. E lo vogliamo sapere subito.

Ancora una cosa.

Carlo, lo apprendo dai giornali, esattamente un mese fa era con noi al Circo Massimo, in una giornata di festa per un evento sportivo, un concerto animato da un milione di persone e da altrettante bandiere, quelle di una squadra di calcio. Questo futile particolare, la cui citazione può sembrare fuori luogo, è però elemento per capire che la vita di ogni singola persona è fatta di tante cose, grandi e piccole, di elevati ideali e di passioni frivole, di razionalità e di istinto, di lucidità e di follia, di pensieri adulti e di pulsioni infantili, di atteggiamenti responsabili e di comportamenti sprovveduti, i cui confini sono talvolta così labili che un solo attimo, uno solo, può bastare a rendere tutto bello o tutto tragico. Non so cosa sia passato per la testa di quel ragazzo, in quell'attimo, per esporsi così imprudentemente alla reazione folle di un coetaneo con la divisa e la pistola. So però che la vita di Carlo era uguale alla nostra vita, non era diversa, e che quella pallottola ha dilaniato pure me, noi, voi. Nessuno ha il diritto di ritenersi estraneo a quel corpo sull'asfalto. Nessuno.

Filippo Thiery
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"E se nei vostri quartieri tutto è rimasto come ieri
senza le barricate, senza feriti, senza granate
se avete preso per buone le verità della televisione
anche se allora vi siete assolti siete lo stesso coinvolti."

Fabrizio De André, 1973


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