Labirinto

"Stanze di vita quotidiana" è il primo album del Guccio che comprai, quando una decina d'anni fa decisi che potevo finalmente iniziare a rimpiazzare, un po' alla volta, le gracchianti cassette doppiate dagli amici con i ciddì più legalmente acquistati al negozio. Diedi la precedenza all'acquisto di "Stanze" anche rispetto a "Signora Bovary", somma perla del repertorio gucciniano, perché quelle canzoni che parlano di tristi rinunce, di fatiche senza scopo, di furiose e vane corse costituiscono un tentativo senza eguali di descrivere noi stessi, la nostra vita, i nostri dannatissimi e microscopici affanni quotidiani che tanto ci fanno star bene o male. Del resto quella di azzeccare fin nei minimi particolari, con le più indovinate immagini, la descrizione di sensazioni che tutti noi abbiamo vissuto mille volte è la migliore qualità da sempre riconosciuta a Francesco Guccini, mi sembra.

Premesso questo, ieri sera sono andato a vedere un film.
Che c'entra, direte voi. Non vi preoccupate, c'entra.
Un lungometraggio italiano, regista Gianluca Maria Tavarelli, di quelli che escono subito dal circuito delle prime visioni e devi andare a scovare in qualche piccola sala d'essai, perché nel resto dei tremila cinema della tua città proiettano solo i colossi del momento: Guerre Stellari in venti sale, Kubrick in quindici, Almodovar in diciotto, e così via... Ma tu per principio, o forse per infantile ripicca, a vedere le colossali e strapubblicizzate opere della cinematografia mondiale non ci vai, i miliardi spesi in propaganda ti danno fastidio, e ti ritrovi invece in quella saletta a cogliere una delle ultime proiezioni di quella pellicola che per vari motivi ti incuriosisce.
Un film italiano, dicevo, che racconta con una serie di flashback ambientati nel corso di quasi vent'anni la più classica "stanza di vita quotidiana": una storia d'amore che va male, e che nel suo trascinarsi si intreccia con tutti gli avvenimenti delle vite dei due protagonisti.
Ora - e vengo al punto - son qui per raccontarvi che i due momenti cruciali del film in questione (che per la cronaca si intitola "Un amore") sono sottolineati e scanditi dai versi di due splendide canzoni del nostro.
La prima è "Argentina", i cui versi riecheggiano quando la protagonista, spinta dalle difficoltà che la vita le sta riservando e dalla voglia d'evasione che quella canzone le suscita, decide di "mollare tutto per andare in Argentina" sotto quella croce del Sud nel cielo terso, eccetera eccetera.
La seconda - udite udite, intenditori del Guccio prima maniera - è "Canzone della vita quotidiana", quando i due protagonisti, dopo essersi persi di vista a lungo, si ritrovano di fronte al mare a riflettere su quanto gli è rimasto in mano dopo tutto quel tempo. Scoprono che aveva ragione quella vecchia canzone, di cui riescono a ripescare nella propria memoria i versi, canticchiandone una strofa tra l'amarezza che deriva dal non sopito rimpianto e la serenità che deriva dal maturato disincanto:

"ma anno dopo anno li conti e sono tanti
quei giorni della vita che hai davanti...
... e poi ti trovi vecchio e ancor non hai capito
che la vita quotidiana ti ha tradito..."


Esci dal cinema ancora scosso dall'aver risentito versi a te tanto cari e così inconsueti a citazioni, e ti accorgi che anche il nome della sala di seconda visione in cui sei appena stato (il cinema "Labirinto") richiama alla mente la copertina di quell'album, quella strana immagine con un incrocio di muri e di porte, aperte forse sul nulla, forse su stanze vuote, forse su spazi migliori, chissà.
E allora ti ritrovi a intrecciare flussi di pensieri nelle stanze del tuo personale Labirinto di vita e di piccole storie, di lunghi corridoi e di improvvise svolte, di vicoli ciechi, di strade preferite ad altre, di bivi a cui non saprai più tornare, di scelte spesso casuali, inconsapevoli o talvolta obbligate, perché una delle porte che avevi spalancate davanti si è richiusa da sè, come un sipario impazzito. Tu urti da una parte e rimbalzi dall'altra, e via di nuovo. E' un po' la storia della mosca cieca che non sa più volare, di cui canta De André. In fisica si chiama moto browniano. Stessa cosa. O anche "random walk", che forse rende meglio l'idea.
In questa "passeggiata a casaccio" hai forse cercato o sognato un cammino, ma per tanti motivi ne hai seguito un altro, che solitamente ti appare peggiore. "La vita è andata diversamente": è la sentenza che ritorna in varie scene del film che vi ho raccontato e che appare anche in tante canzoni di Francesco, non ultima quella che racconta di un sogno, e di tante speranze disilluse, lasciate al di là dell'oceano.

"Io credo che sappiamo che è diverso
se le cose sono state poi più amare
le accetti, tiri avanti e non hai perso
se sono differenti dal sognare
perché non è uno scherzo sapere continuare".


Non è uno scherzo, già, e rimane la consapevolezza di quanto sia - o sia stata - inevitabile la triste rinuncia a quello che non sei e non sarai mai, o a quello che eri e non sei più. Anche se ogni tanto torni a sintonizzarti, senza accorgertene, sulla flebile frequenza del lamento di K.D. che piange lontana, sospesa tra l'ieri e l'oggi.
Ma questa è un'altra storia, un'altra stanza rimasta senza colori e senza luce in questo complicato labirinto senza fine.


Fil, ottobre 1999





La locomotiva - racconto per immagini di Francesco Guccini

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