Black - Out
(Recensione a cura di Filippo Thiery)

La predisposizione da parte di Francesco Guccini a vivere di notte e dormire di giorno non è certo un segreto.

Dal "tu lavori quand'io vado a letto" rivolto all'amico Piero al "lo sento quando torno stanco e tardi la mattina" riferita al pensionato vicino di casa, fino all'esilarante raccontino "la mattina si può anche dormire" pubblicato su "La legge del bar e altre comiche", il fastidio per la luce diurna e l'attesa per il calar della sera scappano fuori un po' dappertutto. In questa canzone il fascino e il sollievo trovati nella dimensione notturna vengono ingigantiti e portati all'ennesima potenza dal black-out che spazza via anche l'illuminazione artificiale, liberando del tutto la mente dall'ingombrante e fastidiosa presenza della realtà ("quasi mai secondo i propri piani") e aprendo del tutto il campo alla fantasia e all'immaginazione.

Quella fantasia che ti permette di costruire una vita ad immagine e somiglianza dei tuoi sogni migliori, limandola e plasmandola a mano a mano che ti tornano in mente le tante speranze cullate, più o meno a lungo, ed archiviate, più o meno tristemente, nel tuo passato, giocando a sovrapporre tante possibili esistenze ("avessi sette vite a mano"), a modellarle una per una ("e mi farei fratello o amante..."), e a ricomporle in una singola esperienza che racchiuda magicamente tutto quello che poteva essere, e spesso non è stato.

Al contrario di quello che accade in altre canzoni di Guccini, però, la consapevolezza di essersi lasciati alle spalle tante possibili esperienze senza averle vissute ("come i posti in cui non si vivrà, come la gente che non incontreremo...") non diventa motivo di tristezza o di rimpianto: il fatto stesso di poterle immaginare come se fossero avvenute le rende tue, diventano parte della tua vita, meno concrete di quella reale, forse, ma al buio chi si accorge della differenza?

E allora eccoti a cimentarti in questo gioco, quasi una regia del tuo film personale, in cui, come tipicamente capita nel dormiveglia che nell'oscurità precede o segue il sonno, le barriere diurne cadono.

Puoi permetterti "incubi indiscreti", andando magari a scoprire i sentimenti e le motivazioni nascoste delle persone che ti vivono attorno, ovviamente plasmandole secondo i tuoi desideri, ci mancherebbe altro, il regista sei tu...

E ancora, puoi sceglierti, nell'inesauribile menu dei tuoi ricordi e della tua immaginazione, l'atmosfera e l'ambientazione giusta... una tranquilla e poetica situazione fuori dal tempo, per esempio, al posto del quotidiano ed inadeguato casino della tua città, con tutti i particolari del caso, dalle sonorità ("fruscio di canapi e di vele"), agli odori ("d'olio e di candele") ai sapori ("il miele... e il vino vero"), ed ecco che hai costruito il tuo "nuovo medioevo"... magari per smontarlo e migliorarlo mille volte, come su un set...

D'altra parte, "se vivere è un problema, rifacciamo da capo la scena", è il vantaggio di essere sul piano della finzione, e allora continui, trovandoti a ricostruire da capo tante, troppe scene del tuo passato. E il sollievo che ti deriva da questo gioco nell'oscurità è talmente forte dal farti ripensare senza drammi e lacerazioni un po' a tutto... una specie di anestesia che ti permette di affrontare senza paura il dolore, e ti dona la lucidità per chiederti: "ma chi sa poi se erano quelli...", e il tuo piccolo-grande film rivela il suo vero senso, quello di aver liberato le tue paure e le tue incertezze ("o caroselli che giriamo...") e di aver restituito valore ed importanza alla tua vita, quella vera ("ma ho questa vita e il mio destino") in cui devi trovare comunque la forza e la carica di andare avanti e di "cavalcare l'Appennino", il tuo Appennino, in tutte le tue giornate, "intense" o "pigre" che siano.

Se in altre canzoni di Guccini le storie andate ("tutta la gente che non ci amerà") e le occasioni perdute ("quello che non facciamo, e non faremo") rimangono come cicatrici del nostro passato ("ed ho per unico rimorso..."), tolte le quali rimane talvolta solo il vuoto ("... restano solo ore scomparse"), nel black-out notturno si trova la forza di rovesciare i piatti di questa implacabile bilancia e di gridare la propria vita, al diavolo le sconfitte e le cose non vissute, quasi con l'orgoglio di poter rivendicare tante ferite e di essere, comunque e sempre, ancora lì ("se si muore solo un po', chi se ne fotte...).

L'urlo che sigla l'apice della canzone ("... e grido al buio più profondo la voglia che ho di stare al mondo...") è un verso che trovo unico ed eccezionale in tutta la produzione gucciniana, perché la comprende tutta e al tempo stesso la completa. E se "in fondo è proprio un gran bel gioco...", allora vada per questa, di vita, e le altre rimangano a farci fantasticare, di tanto in tanto ("...mi basta questa che viviamo"). 

Tutto questo funziona al buio, probabilmente.

Quando la realtà, vera o immaginata che sia, non è disturbata dai raggi che ne rivelano impietosamente le fattezze, le contraddizioni, le imperfezioni e ne demarcano nettamente le ombre.

Forse sotto i riflettori, naturali o artificiali che siano, è meno facile essere positivi ed ottimisti. Ed eccola, la differenza con tante altre canzoni... quelle raccontano la vita vista di giorno, con tutti i suoi spigoli contro cui hai paura di sbattere e tutte le sue storture impossibili da raddrizzare.

Ma per una volta, aiutati dal sollievo dell'oscurità, è stato bello immaginare che tutto fosse più facile.

E che questa vita, questo destino, fossero veramente in grado di farci cavalcare le montagne.


"Che dopo, a giorno fatto, dormo anch'io".


Fil, ottobre 1999



La locomotiva - racconto per immagini di Francesco Guccini

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