il manifesto

22 Aprile 2001

Mezza libera

Silvia Baraldini è finalmente a casa. Il tribunale di sorveglianza le ha concesso gli arresti domiciliari per cinque mesi, fino a settembre. Potrà uscire per sei ore al giorno, potrà curarsi in ospedale, ricevere amici e telefonate. Ma resterà comunque una detenuta anche se fuori dal carcere. "E' un passo avanti ma non mi sento ancora libera. Adesso voglio ricostruirmi una vita per quanto mi è possibile. Ma non capisco il motivo di tanto accanimento nei miei confronti, anche da parte dei giornalisti".


di ANGELO MASTRANDREA

"Un grande disordine, dentro e fuori". Silvia Baraldini è libera da poco più di mezzora e finalmente mette piede nella casa vuota di via del Babuino, angolo piazza di Spagna. E' lì che viveva la madre Dolores prima che fosse ricoverata in un istituto di cura. Ed è lì che la Baraldini trascorrerà i prossimi mesi, agli arresti domiciliari. Ma sua madre è morta l'8 aprile e non ce l'ha fatta a vederla uscire dal carcere, ed ecco così spiegata quell'impressione di "disordine dentro e fuori" a rivedere dopo quasi vent'anni quel piccolo appartamento affittato dalla nonna già negli anni '50. Sono le 15 quando la Baraldini scende dalla Rover grigia con la quale è stata trasportata dal Policlinico Gemelli, dov'è stata ricoverata negli ultimi mesi per curare i postumi di un tumore al seno. Ad accompagnarla e a farle compagnia per buona parte del pomeriggio, la cugina Elena e l'avvocato Grazia Volo.
Attratti da fotografi e giornalisti in attesa, si fermano anche diversi passanti, molti dei quali diretti alla vicina piazza del Popolo per la convention ulivista. Ma lei, "prostrata dalla troppa attesa e dalla sofferenza di questi ultimi anni", si nega a tutti, preferendo rinchiudersi in casa. A 53 anni e dopo quasi 20 trascorsi in carcere, ora vuole solo stare tranquilla. "Ho passato gli anni più importanti della mia vita in carcere. Sono anni in cui una donna esprime al meglio se stessa. Ma io quegli anni non li ho vissuti", dice a chi le sta più vicino.
Ma, nonostante la felicità per questo ritorno a casa, Silvia Baraldini confessa di non sentirsi "libera sul serio". Anzi, spera che "questo avvenga presto, conformemente alla legge italiana". Ciononostante, accetta con serenità la decisione del Tribunale di sorveglianza. "E' meglio di niente", sostiene una donna "abituata alle delusioni" e per questo abituata a valutare positivamente quello che comunque definisce un "passo in avanti". E' contenta e non fa niente per nasconderlo, Silvia Baraldini, e vuole "ringraziare tutti coloro che non mi hanno lasciato sola in Italia, compresi gli amici del manifesto". E confessa ad amici e parenti che "la differenza più sostanziale" che ha avvertito tra Italia e Stati uniti "è stata di trovare tantissime persone, qui in Italia, che mi hanno dato una mano e mi sono state amiche".
Mentre era ancora piantonata al Gemelli, ha ricevuto dagli Stati uniti un pacco di foto delle sue compagne graziate da Clinton, Linda Evans e Susan Rosenberg. Erano in spiaggia, felici e sorridenti. "Sognavamo insieme di respirare l'aria del mare, bagnarsi i piedi nell'acqua. Il mare è come la libertà", è la spiegazione. Eppure loro avevano condanne più alte della sua. "Anch'io, se mi fossi pentita e avessi fatto i nomi a suo tempo, forse sarei uscita prima. Ma la coerenza forse è una dote fuori moda. E non vorrei che fosse questo il motivo di tanto accanimento nei miei confronti". Quello che non riesce a spiegarsi, Silvia Baraldini, è il perché di tanto accanimento, anche in Italia, su alcuni giornali. E probabilmente si riferisce ad alcuni articoli particolarmente spietati, a reati da cui è stata assolta e che continuano a essergli attribuiti, a prime pagine polemiche. La spiegazione potrebbe essere ancora la stessa: il coraggio di non aver rinnegato le proprie idee. Ma anche, suggerisce il suo amico Gianni Minà, più miseri motivi di campagna elettorale: "Purtroppo, sulla pelle della gente si fanno le battaglie politiche".
Nell'ospedale che l'ha vista detenuta in questi ultimi mesi, attorno a lei da ieri mattina era stato steso un cordone di agenti in borghese che non consentivano a nessuno l'accesso al reparto di radioterapia. Sono da poco passate le 14, e all'ufficio informazioni del Policlinico negano perfino ciò che ormai è di dominio pubblico da diverse ore, e cioé che alla Baraldini sono stati concessi gli arresti domiciliari e che da lì a poco dovrebbe uscire. Dopo diverse insistenze, ammettono che sì, forse è vero, ma "gli arresti domiciliari saranno scontati in ospedale, e comunque non è possibile avvicinarla". Invece, quasi nello stesso momento la Baraldini viene fatta uscire da un qualche ingresso secondario e caricata in macchina, beffando il piccolo plotone di fotografi e giornalisti in attesa.
Poco più di mezzora dopo, l'arrivo a casa, con quel "disordine dentro e fuori", un sorriso e un saluto per cronisti e curiosi affacciata per un attimo dalla finestra del secondo piano, giusto il tempo di scandire un "sono felice". E i primi desideri confessati agli amici che l'hanno sostenuta fin dal primo giorno: "Spero di ricostruirmi una vita, nel limite di quanto mi è permesso".



Dopo vent'anni

di GIANNI MINA'

Silvia Baraldini è tornata ieri, dopo più di vent'anni nella casa al centro di Roma, dove sperava di trascorrere con la vecchia madre malata, un frammento della sua vita spezzata dalla prigione che ha segnato gli anni più importanti nel suo cammino di donna. Il Tribunale di sorveglianza di Roma ha messo Silvia agli arresti domiciliari, per ora fino ad ottobre, perché possa curarsi con meno solitudine il tumore di cui è stata operata l'inverno scorso e possa affrontare la battaglia per il recupero della sua salute. Ma il provvedimento è arrivato con troppi mesi di ritardo dopo il nuovo maligno insorgere della sua infermità, e nel frattempo il destino si è portato via due settimane fa mamma Dolores. La Baraldini aspettava, secondo legge, la sospensione della pena ma, come negli Stati Uniti, anche in Italia Silvia ha pagato cara la sua coerenza in una stagione dove l'opportunismo è un atteggiamento diffuso anche in molte persone che si dicono progressiste.
"Meglio di niente" ha comunque commentato al momento di lasciare l'ospedale Gemelli, ormai vaccinata ai colpi bassi di quella che chiamano giustizia e che invece ancora una volta si è fatta condizionare dalla convenienza politica. Da questo provvedimento, però, non esce bene la conclamata indipendenza dei giudici italiani che hanno negato a una detenuta gravemente ammalata una libertà a tempo che invece è stata concessa per esempio a Francesca Mambro e a Prospero Gallinari, condannati a diversi ergastoli: la prima per maternità, il secondo per gravi problemi cardiaci. Siamo felici come cittadini italiani che nel nostro paese chi è recluso ed è malato o ha necessità oggettive possa risolverle nelle migliori condizioni. E' un segno di civiltà, così come è eticamente rilevante che nei nostri codici (a differenza degli Stati Uniti) sia previsto il recupero e non l'annichilimento di chi, scontata una parte della pena, mostri di riconoscere i suoi errori. Ma proprio per questo ci lascia perplessi un apparato di giustizia che, in questo caso, non si rende conto quanto sia pericoloso e immorale per un malinteso senso di compiacenza (o servilismo) verso gli Stati Uniti, "adattare" un provvedimento giudiziario indiscutibile ai rapporti con un altro paese, fosse pure il più potente. Il ministero di giustizia di Washington, infatti, non solo ha tradito per primo il patto firmato con il governo D'Alema e con il ministro Diliberto, non comunicando (pur essendone a conoscenza) né a Silvia né al suo avvocato, né allo stato italiano il nuovo pericolo insorto per la salute della detenuta, ma ha mostrato fin dall'inizio della storia giudiziaria della Baraldini un disprezzo per i diritti civili e umani che non possono essere dimenticati. Non è per caso che l'infernale carcere sotterraneo di Lexington sia poi stato chiuso per una campagna internazionale.
Ma in questa ennesima sconcertante vicenda delude anche l'atteggiamento di buona parte dei mezzi d'informazione, anche quelli della borghesia illuminata, che non solo hanno continuato ad attribuire alla Baraldini la falsa responsabilità "nell'assalto ad una banca dove è stato ucciso un poliziotto", (responsabilità dalla quale Silvia è stata riconosciuta estranea dalla stessa pubblica accusa americana) ma ha tenuto una posizione ambigua, se non ostile. Feltri su Libero è stato capace, per esempio, di sostenere il diritto alla libertà del vecchio novantenne criminale nazista Engel, il boia di Genova, ma non quello della "comunista" Baraldini. Questa sarebbe la famosa assenza di pregiudizio della stampa "liberale". La realtà è che anche per le coscienze più spericolate e dubbie, l'odissea di Silvia (esente da reati di sangue, ma condannata ad una pena infinita per fatti che in Europa sarebbero stati sanzionati al massimo con cinque-sei anni) appare inquietante. E non potendo dare una spiegazione plausibile sui tormenti riservati soltanto alla Baraldini, molte "belle penne" di casa nostra non trovano di meglio che essere superficiali, e lasciare non chiarite le ragioni per cui una donna di 52 anni debba sfiorire in carcere. Perché nessuno di questi colleghi alla moda si è andato a leggere al parlamento italiano il dossier giudiziario sulla Baraldini, inviato dall'ex ministro della giustizia nordamericano, Janet Reno? Questo sercizio di elementare regola giornalistica avrebbe messo in crisi le certezze accusatorie contro Silvia dei presunti liberali. Ora la speranza è che sia il presidente Ciampi a risolvere con un gesto coraggioso il caso, magari accogliendo l'appello che attraverso la rivista Latinoamerica alcuni premi Nobel e molti intellettuali di tutto il mondo gli hanno presentato recentemente. Un'iniziativa che potrebbe presto, nelle sedi competenti, far apparire l'Italia come un paese che viola i diritti civili e umani.



"Qui Usa ci cova"

Il compromesso e le accuse di comitati e PRC


di ANGELO MASTRANDREA

E' contenuta in sette pagine di ordinanza, firmate dal relatore Francesco Centofanti, la decisione del Tribunale di sorveglianza che concede gli arresti domiciliari per cinque mesi a Silvia Baraldini. La corte non ha accolto la richiesta della difesa di un rinvio dell'esecuzione della pena, concedendo "solo" la detenzione in casa, sia pur con restrizioni abbastanza blande. Sul giudizio hanno pesato, probabilmente, sia la decisione della Corte Costituzionale - che indirizzava il Tribunale a decidere secondo le norme italiane e non secondo l'accordo con gli Usa - che la lettera inviata il 16 aprile scorso dal ministero della Giustizia americano a quello italiano. Nella missiva si diceva sì a un provvedimento che consentisse alla Baraldini di curarsi fuori dal carcere, ma si ribadiva l'assoluta contrarietà a qualsiasi ipotesi di mutamento della pena. A dare l'esatta interpretazione della lettera era poi intervenuta l'ambasciata Usa a Roma, che aveva affermato che non si trattava di un nulla osta alla scarcerazione.
Comunque, fino al 20 settembre la Baraldini godrà di una parziale libertà: potrà uscire di casa dalle 9 alle 14 "per provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita", per esempio per andare al lavoro o a fare la spesa. Mentre "potrà recarsi in ogni momento presso ambulatori, servizi sanitari e ospedalieri per interventi, accertamenti diagnostici e cure". E, "se sarà necessario il suo ricovero in tali luoghi, il luogo del ricovero diverrà quello di detenzione domiciliare". Il provvedimento, inoltre, non impone divieti di comunicazione, dunque la Baraldini potrà fare e ricevere telefonate, e vedere gente. A pagina tre dell'ordinanza si possono leggere invece le motivazioni: "La peculiarità e la delicatezza del trattamento terapico fanno apparire veramente inumano e contrario alla dignità della persona il protrarsi dell'espiazione in ambiente intramurario (o in ambiente ad esso equiparato, come è da considerarsi la permanenza in ospedale sotto stretto piantonamento)".
Critico nei confronti del provvedimento è il Coordinamento nazionale Silvia Baraldini, che sostiene che la misura degli arresti domiciliari rappresenta "un cedimento alla pretesa degli Usa di condizionare la sovranità delle istituzioni del nostro paese". Sulla stessa linea d'onda l'europarlamentare comunista Lucio Manisco, da sempre impegnato in prima linea per la causa della Baraldini. Di "compromesso che purtroppo dimostra la subalternità agli Usa" parla anche il segretario del Prc Fausto Bertinotti, che però afferma che "una prima battaglia per Silvia è stata vinta".



SCHEDA / LA STORIA DI SILVIA

VENT'ANNI

L'università statale del Wisconsin, l'adesione al movimento comunista 19 Maggio (la data di nascita di Ho Chi Minh e quella di morte di Martin Luther King), la militanza nei gruppi di sostegno dell'indipendenza di Portorico, le lotte del Black liberation army. Fino al primo arresto, il 9 novembre del 1982, con l'accusa di rapina a un furgone portavalori della Brink's. E' il giorno in cui finisce la libertà di Silvia Baraldini

OPERAZIONE ASSATA

Nel novembre del '79 evade dal carcere la leader nera Assata Shakur. L'Fbi si scatena contro le "Pantere" e tutti i gruppi fiancheggiatori, e Silvia finisce nell'ingranaggio, imputata di associazione sovversiva

LA CONDANNA

La prima sentenza è tremenda, quarant'anni di prigione per cospirazione, più tre anni per oltraggio alla corte: si era rifiutata di rispondere al giudice che indagava sul Faln, il movimento di liberazione di Portorico. Le sue colpe sono la militanza con il gruppo 19 maggio e La famiglia, e diverse testimonianze dello stesso pentito del Faln. Nessun reato di sangue, ma la legge antimafia americana estende all'intero gruppo i reati commessi da uno dei suoi membri. Lei rifiuta 25 mila dollari offerti per denunciare i compagni

LE CARCERI

Nell'83 Silvia Baraldini comincia con il penitenziario metropolitano di New York. Nell'84 la trasferiscono a Pleasanton, California. Come irriducibile finisce quindi a Lexington, nel Kentucky, un buco infernale da cui esce con un tumore. La incatenano anche per la cobaltoterapia. Nel 1990 finisce nel peggior carcere femminile d'America: a Marianna, Florida (Lexington era stato chiuso) proprio mentre il governo italiano annuncia di averne chiesto l'estradizione

GENTE E GOVERNI

Tutti i governi dall'89 in avanti hanno dichiarato, quasi sempre mentendo, di averle tentate tutte per riportare Silvia Baraldini in Italia. Mentre cresce un movimento che chiede la sua liberazione, l'ultimo tentativo ha successo: per "ripagare" i morti del Cermis uccisi da un aviere americano in vena d'acrobazie, e solo dopo aver fatto firmare al governo italiano un accordo tremendo, gli Stati uniti accettano di rimpatriare Silvia Baraldini. E' il 24 agosto 2000

IN ITALIA

Baraldini è a Rebibbia, il cancro si aggrava, il ministro Fassino autorizza il trasferimento al policlinico Gemelli per l'operazione e le successive cure. Comincia l'ennesimo iter giudiziario: diversi tribunali si rimpallano la decisione da prendere, fino a che dagli Stati uniti arriva il nulla osta a un provvedimento temporaneo di scarcerazione per consentire le cure necessarie. Ieri la sentenza del tribunale di sorveglianza, la meno generosa possibile: arresti domiciliari.


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