Silvia Baraldini è finalmente a casa. Il tribunale di sorveglianza le ha concesso gli arresti domiciliari per cinque mesi, fino a settembre. Potrà uscire per sei ore al giorno, potrà curarsi in ospedale, ricevere amici e telefonate. Ma resterà comunque una detenuta anche se fuori dal carcere. "E' un passo avanti ma non mi sento ancora libera. Adesso voglio ricostruirmi una vita per quanto mi è possibile. Ma non capisco il motivo di tanto accanimento nei miei confronti, anche da parte dei giornalisti".
di ANGELO MASTRANDREA
"Un grande disordine, dentro e fuori". Silvia Baraldini è
libera da poco più di mezzora e finalmente mette piede nella casa
vuota di via del Babuino, angolo piazza di Spagna. E' lì che
viveva la madre Dolores prima che fosse ricoverata in un istituto
di cura. Ed è lì che la Baraldini trascorrerà i prossimi mesi,
agli arresti domiciliari. Ma sua madre è morta l'8 aprile e non
ce l'ha fatta a vederla uscire dal carcere, ed ecco così spiegata
quell'impressione di "disordine dentro e fuori" a rivedere dopo
quasi vent'anni quel piccolo appartamento affittato dalla nonna
già negli anni '50. Sono le 15 quando la Baraldini scende dalla
Rover grigia con la quale è stata trasportata dal Policlinico
Gemelli, dov'è stata ricoverata negli ultimi mesi per curare i
postumi di un tumore al seno. Ad accompagnarla e a farle
compagnia per buona parte del pomeriggio, la cugina Elena e
l'avvocato Grazia Volo.
Attratti da fotografi e giornalisti in attesa, si fermano anche
diversi passanti, molti dei quali diretti alla vicina piazza del
Popolo per la convention ulivista. Ma lei, "prostrata dalla
troppa attesa e dalla sofferenza di questi ultimi anni", si nega
a tutti, preferendo rinchiudersi in casa. A 53 anni e dopo quasi
20 trascorsi in carcere, ora vuole solo stare tranquilla. "Ho
passato gli anni più importanti della mia vita in carcere. Sono
anni in cui una donna esprime al meglio se stessa. Ma io quegli
anni non li ho vissuti", dice a chi le sta più vicino.
Ma, nonostante la felicità per questo ritorno a casa, Silvia
Baraldini confessa di non sentirsi "libera sul serio". Anzi,
spera che "questo avvenga presto, conformemente alla legge
italiana". Ciononostante, accetta con serenità la decisione del
Tribunale di sorveglianza. "E' meglio di niente", sostiene una
donna "abituata alle delusioni" e per questo abituata a valutare
positivamente quello che comunque definisce un "passo in avanti".
E' contenta e non fa niente per nasconderlo, Silvia Baraldini, e
vuole "ringraziare tutti coloro che non mi hanno lasciato sola in
Italia, compresi gli amici del manifesto". E confessa ad
amici e parenti che "la differenza più sostanziale" che ha
avvertito tra Italia e Stati uniti "è stata di trovare tantissime
persone, qui in Italia, che mi hanno dato una mano e mi sono
state amiche".
Mentre era ancora piantonata al Gemelli, ha ricevuto dagli Stati
uniti un pacco di foto delle sue compagne graziate da Clinton,
Linda Evans e Susan Rosenberg. Erano in spiaggia, felici e
sorridenti. "Sognavamo insieme di respirare l'aria del mare,
bagnarsi i piedi nell'acqua. Il mare è come la libertà", è la
spiegazione. Eppure loro avevano condanne più alte della sua.
"Anch'io, se mi fossi pentita e avessi fatto i nomi a suo tempo,
forse sarei uscita prima. Ma la coerenza forse è una dote fuori
moda. E non vorrei che fosse questo il motivo di tanto
accanimento nei miei confronti". Quello che non riesce a
spiegarsi, Silvia Baraldini, è il perché di tanto accanimento,
anche in Italia, su alcuni giornali. E probabilmente si riferisce
ad alcuni articoli particolarmente spietati, a reati da cui è
stata assolta e che continuano a essergli attribuiti, a prime
pagine polemiche. La spiegazione potrebbe essere ancora la
stessa: il coraggio di non aver rinnegato le proprie idee. Ma
anche, suggerisce il suo amico Gianni Minà, più miseri motivi di
campagna elettorale: "Purtroppo, sulla pelle della gente si fanno
le battaglie politiche".
Nell'ospedale che l'ha vista detenuta in questi ultimi mesi,
attorno a lei da ieri mattina era stato steso un cordone di
agenti in borghese che non consentivano a nessuno l'accesso al
reparto di radioterapia. Sono da poco passate le 14, e
all'ufficio informazioni del Policlinico negano perfino ciò che
ormai è di dominio pubblico da diverse ore, e cioé che alla
Baraldini sono stati concessi gli arresti domiciliari e che da lì
a poco dovrebbe uscire. Dopo diverse insistenze, ammettono che
sì, forse è vero, ma "gli arresti domiciliari saranno scontati in
ospedale, e comunque non è possibile avvicinarla". Invece, quasi
nello stesso momento la Baraldini viene fatta uscire da un
qualche ingresso secondario e caricata in macchina, beffando il
piccolo plotone di fotografi e giornalisti in attesa.
Poco più di mezzora dopo, l'arrivo a casa, con quel "disordine
dentro e fuori", un sorriso e un saluto per cronisti e curiosi
affacciata per un attimo dalla finestra del secondo piano, giusto
il tempo di scandire un "sono felice". E i primi desideri
confessati agli amici che l'hanno sostenuta fin dal primo giorno:
"Spero di ricostruirmi una vita, nel limite di quanto mi è
permesso".
di GIANNI MINA'
Silvia Baraldini è tornata ieri, dopo più di vent'anni
nella casa al centro di Roma, dove sperava di trascorrere con la
vecchia madre malata, un frammento della sua vita spezzata dalla
prigione che ha segnato gli anni più importanti nel suo cammino
di donna. Il Tribunale di sorveglianza di Roma ha messo Silvia
agli arresti domiciliari, per ora fino ad ottobre, perché possa
curarsi con meno solitudine il tumore di cui è stata operata
l'inverno scorso e possa affrontare la battaglia per il recupero
della sua salute. Ma il provvedimento è arrivato con troppi mesi
di ritardo dopo il nuovo maligno insorgere della sua infermità, e
nel frattempo il destino si è portato via due settimane fa mamma
Dolores. La Baraldini aspettava, secondo legge, la sospensione
della pena ma, come negli Stati Uniti, anche in Italia Silvia ha
pagato cara la sua coerenza in una stagione dove l'opportunismo è
un atteggiamento diffuso anche in molte persone che si dicono
progressiste.
"Meglio di niente" ha comunque commentato al momento di lasciare
l'ospedale Gemelli, ormai vaccinata ai colpi bassi di quella che
chiamano giustizia e che invece ancora una volta si è fatta
condizionare dalla convenienza politica. Da questo provvedimento,
però, non esce bene la conclamata indipendenza dei giudici
italiani che hanno negato a una detenuta gravemente ammalata una
libertà a tempo che invece è stata concessa per esempio a
Francesca Mambro e a Prospero Gallinari, condannati a diversi
ergastoli: la prima per maternità, il secondo per gravi problemi
cardiaci. Siamo felici come cittadini italiani che nel nostro
paese chi è recluso ed è malato o ha necessità oggettive possa
risolverle nelle migliori condizioni. E' un segno di civiltà,
così come è eticamente rilevante che nei nostri codici (a
differenza degli Stati Uniti) sia previsto il recupero e non
l'annichilimento di chi, scontata una parte della pena, mostri di
riconoscere i suoi errori. Ma proprio per questo ci lascia
perplessi un apparato di giustizia che, in questo caso, non si
rende conto quanto sia pericoloso e immorale per un malinteso
senso di compiacenza (o servilismo) verso gli Stati Uniti,
"adattare" un provvedimento giudiziario indiscutibile ai rapporti
con un altro paese, fosse pure il più potente. Il ministero di
giustizia di Washington, infatti, non solo ha tradito per primo
il patto firmato con il governo D'Alema e con il ministro
Diliberto, non comunicando (pur essendone a conoscenza) né a
Silvia né al suo avvocato, né allo stato italiano il nuovo
pericolo insorto per la salute della detenuta, ma ha mostrato fin
dall'inizio della storia giudiziaria della Baraldini un disprezzo
per i diritti civili e umani che non possono essere dimenticati.
Non è per caso che l'infernale carcere sotterraneo di Lexington
sia poi stato chiuso per una campagna internazionale.
Ma in questa ennesima sconcertante vicenda delude anche
l'atteggiamento di buona parte dei mezzi d'informazione, anche
quelli della borghesia illuminata, che non solo hanno continuato
ad attribuire alla Baraldini la falsa responsabilità
"nell'assalto ad una banca dove è stato ucciso un poliziotto",
(responsabilità dalla quale Silvia è stata riconosciuta estranea
dalla stessa pubblica accusa americana) ma ha tenuto una
posizione ambigua, se non ostile. Feltri su Libero è
stato capace, per esempio, di sostenere il diritto alla libertà
del vecchio novantenne criminale nazista Engel, il boia di
Genova, ma non quello della "comunista" Baraldini. Questa sarebbe
la famosa assenza di pregiudizio della stampa "liberale". La
realtà è che anche per le coscienze più spericolate e dubbie,
l'odissea di Silvia (esente da reati di sangue, ma condannata ad
una pena infinita per fatti che in Europa sarebbero stati
sanzionati al massimo con cinque-sei anni) appare inquietante. E
non potendo dare una spiegazione plausibile sui tormenti
riservati soltanto alla Baraldini, molte "belle penne" di casa
nostra non trovano di meglio che essere superficiali, e lasciare
non chiarite le ragioni per cui una donna di 52 anni debba
sfiorire in carcere. Perché nessuno di questi colleghi alla moda
si è andato a leggere al parlamento italiano il dossier
giudiziario sulla Baraldini, inviato dall'ex ministro della
giustizia nordamericano, Janet Reno? Questo sercizio di
elementare regola giornalistica avrebbe messo in crisi le
certezze accusatorie contro Silvia dei presunti liberali. Ora la
speranza è che sia il presidente Ciampi a risolvere con un gesto
coraggioso il caso, magari accogliendo l'appello che attraverso
la rivista Latinoamerica alcuni premi Nobel e molti
intellettuali di tutto il mondo gli hanno presentato
recentemente. Un'iniziativa che potrebbe presto, nelle sedi
competenti, far apparire l'Italia come un paese che viola i
diritti civili e umani.
Il compromesso e le accuse di comitati e PRC
di ANGELO MASTRANDREA
E' contenuta in sette pagine di ordinanza, firmate dal
relatore Francesco Centofanti, la decisione del Tribunale di
sorveglianza che concede gli arresti domiciliari per cinque mesi
a Silvia Baraldini. La corte non ha accolto la richiesta della
difesa di un rinvio dell'esecuzione della pena, concedendo "solo"
la detenzione in casa, sia pur con restrizioni abbastanza blande.
Sul giudizio hanno pesato, probabilmente, sia la decisione della
Corte Costituzionale - che indirizzava il Tribunale a decidere
secondo le norme italiane e non secondo l'accordo con gli Usa -
che la lettera inviata il 16 aprile scorso dal ministero della
Giustizia americano a quello italiano. Nella missiva si diceva sì
a un provvedimento che consentisse alla Baraldini di curarsi
fuori dal carcere, ma si ribadiva l'assoluta contrarietà a
qualsiasi ipotesi di mutamento della pena. A dare l'esatta
interpretazione della lettera era poi intervenuta l'ambasciata
Usa a Roma, che aveva affermato che non si trattava di un nulla
osta alla scarcerazione.
Comunque, fino al 20 settembre la Baraldini godrà di una parziale
libertà: potrà uscire di casa dalle 9 alle 14 "per provvedere
alle sue indispensabili esigenze di vita", per esempio per andare
al lavoro o a fare la spesa. Mentre "potrà recarsi in ogni
momento presso ambulatori, servizi sanitari e ospedalieri per
interventi, accertamenti diagnostici e cure". E, "se sarà
necessario il suo ricovero in tali luoghi, il luogo del ricovero
diverrà quello di detenzione domiciliare". Il provvedimento,
inoltre, non impone divieti di comunicazione, dunque la Baraldini
potrà fare e ricevere telefonate, e vedere gente. A pagina tre
dell'ordinanza si possono leggere invece le motivazioni: "La
peculiarità e la delicatezza del trattamento terapico fanno
apparire veramente inumano e contrario alla dignità della persona
il protrarsi dell'espiazione in ambiente intramurario (o in
ambiente ad esso equiparato, come è da considerarsi la permanenza
in ospedale sotto stretto piantonamento)".
Critico nei confronti del provvedimento è il Coordinamento
nazionale Silvia Baraldini, che sostiene che la misura degli
arresti domiciliari rappresenta "un cedimento alla pretesa degli
Usa di condizionare la sovranità delle istituzioni del nostro
paese". Sulla stessa linea d'onda l'europarlamentare comunista
Lucio Manisco, da sempre impegnato in prima linea per la causa
della Baraldini. Di "compromesso che purtroppo dimostra la
subalternità agli Usa" parla anche il segretario del Prc
Fausto Bertinotti, che però afferma che "una prima battaglia per
Silvia è stata vinta".
VENT'ANNI
L'università statale del Wisconsin, l'adesione al movimento
comunista 19 Maggio (la data di nascita di Ho Chi Minh e quella
di morte di Martin Luther King), la militanza nei gruppi di
sostegno dell'indipendenza di Portorico, le lotte del Black
liberation army. Fino al primo arresto, il 9 novembre del 1982,
con l'accusa di rapina a un furgone portavalori della Brink's. E'
il giorno in cui finisce la libertà di Silvia Baraldini
OPERAZIONE ASSATA
Nel novembre del '79 evade dal carcere la leader nera Assata
Shakur. L'Fbi si scatena contro le "Pantere" e tutti i gruppi
fiancheggiatori, e Silvia finisce nell'ingranaggio, imputata di
associazione sovversiva
LA CONDANNA
La prima sentenza è tremenda, quarant'anni di prigione per
cospirazione, più tre anni per oltraggio alla corte: si era
rifiutata di rispondere al giudice che indagava sul Faln, il
movimento di liberazione di Portorico. Le sue colpe sono la
militanza con il gruppo 19 maggio e La famiglia, e diverse
testimonianze dello stesso pentito del Faln. Nessun reato di
sangue, ma la legge antimafia americana estende all'intero gruppo
i reati commessi da uno dei suoi membri. Lei rifiuta 25 mila
dollari offerti per denunciare i compagni
LE CARCERI
Nell'83 Silvia Baraldini comincia con il penitenziario
metropolitano di New York. Nell'84 la trasferiscono a Pleasanton,
California. Come irriducibile finisce quindi a Lexington, nel
Kentucky, un buco infernale da cui esce con un tumore. La
incatenano anche per la cobaltoterapia. Nel 1990 finisce nel
peggior carcere femminile d'America: a Marianna, Florida
(Lexington era stato chiuso) proprio mentre il governo italiano
annuncia di averne chiesto l'estradizione
GENTE E GOVERNI
Tutti i governi dall'89 in avanti hanno dichiarato, quasi sempre
mentendo, di averle tentate tutte per riportare Silvia Baraldini
in Italia. Mentre cresce un movimento che chiede la sua
liberazione, l'ultimo tentativo ha successo: per "ripagare" i
morti del Cermis uccisi da un aviere americano in vena
d'acrobazie, e solo dopo aver fatto firmare al governo italiano
un accordo tremendo, gli Stati uniti accettano di rimpatriare
Silvia Baraldini. E' il 24 agosto 2000
IN ITALIA
Baraldini è a Rebibbia, il cancro si aggrava, il ministro Fassino
autorizza il trasferimento al policlinico Gemelli per
l'operazione e le successive cure. Comincia l'ennesimo iter
giudiziario: diversi tribunali si rimpallano la decisione da
prendere, fino a che dagli Stati uniti arriva il nulla osta a un
provvedimento temporaneo di scarcerazione per consentire le cure
necessarie. Ieri la sentenza del tribunale di sorveglianza, la
meno generosa possibile: arresti domiciliari.